Dalla parte di chi è in fuga

09 1La mostra «Fuggire» al Museo nazionale svizzero a Zurigo è stata ideata per le scuole. La migrazione sarà un tema che ci accompagnerà a lungo e di cui, in futuro, le giovani generazioni si dovranno indubbiamente occupare. L'esposizione intende dare la possibilità ai visitatori di farsi un'opinione su questo fenomeno. E lo fa invitando gli ospiti della mostra a vestire i panni di chi è in fuga. Per le scuole è stato realizzato un dossier didattico. Leggi l'articolo apparso sul settimanale «Azione». Di Luca Beti

È una doccia gelata quella che ti sorprende all'entrata dell'esposizione. È una doccia fatta di scene di violenza, di urla, spari, sguardi vuoti rivolti verso l'ignoto, verso il mare simbolo di speranza. Le immagini scorrono su tre schermi in una sala in penombra. Sparsi sul pavimento nel disordine lasciato da un bombardamento, blocchi squadrati dove il visitatore può prendere posto. Sono sgabelli scomodi, quasi graffianti per scalfire la corazza di indifferenza che abbiamo indossato per proteggerci dalle troppe tragedie umane. I nostri radiogiornali e telegiornali ne sono pieni e così non ci turbano più per legge di assuefazione e finiscono risucchiate nel frenetico vorticare della nostra quotidianità.

È con le emozioni forti che la mostra «Fuggire» al Museo nazionale svizzero a Zurigo vuole scuotere il visitatore. «L'obiettivo del mio film è di smuovere, ma anche di spiegare che i profughi non sono numeri, bensì persone come noi, come i nostri vicini, che ridono e piangono, che provano i nostri stessi sentimenti», illustra il produttore e regista curdo-siriano Mano Khalil, autore della videoinstallazione. «In questa mostra per una volta è possibile abbandonare il ritmo dei radiogiornali e dei telegiornali che in venti minuti ci raccontano il mondo», continua il regista del film documentario «L'apicoltore» con cui ha vinto il premio delle Giornate di Soletta nel 2013.

L'esposizione «Fuggire» non racconta brandelli, bensì vite intere, anche se fittizie. Sono le biografie di cinque profughi, due donne e tre uomini, fuggiti dal Libano, dal Sudan del Sud, dalla Somalia, dalla Siria e dall'Afghanistan, narrate in maniera interattiva e didattica perché la mostra è pensata per le scuole. Sono le storie che si nascondono dietro ai numeri. Sono oltre 65 milioni i profughi al mondo, a cui ogni giorno se ne aggiungono circa 35mila (pari a quasi due volte la popolazione di Bellinzona). Più della metà sono minorenni.

«Nascondiamo questi destini dietro ai numeri e alle statistiche. Creiamo così una certa distanza tra noi e loro. Una distanza che ci permette di sorseggiare tranquillamente il caffè alla mattina, mentre nei territori in guerra i bambini vengono sepolti dalle macerie», ha ricordato la consigliera federale Simonetta Sommaruga in occasione del vernissage della mostra. «Sono rare le occasioni in cui ci lasciamo prendere dalla tristezza. È successo quando abbiamo visto l'immagine di Aylan, bambino di tre anni sospinto dai flutti su una spiaggia turca. Oppure la fotografia di Lamar, bambina afghana di cinque anni ritratta mentre dormiva per terra, in una foresta in Serbia alle porte della frontiera ungherese chiusa».

L'esposizione «Fuggire», frutto di un progetto comune della Commissione federale della migrazione, della Segreteria di Stato della migrazione, dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite e della Direzione dello sviluppo e della cooperazione, chiede al visitatore di indossare i panni del profugo e di mettersi in cammino.

Lasciate le macerie della prima sala, si supera un corridoio umanitario costituito da pareti nere, d'inchiostro, graffiate dai disegni di bambini traumatizzati dalle esperienze vissute in guerra o durante la fuga. Ad attenderci dall'altra parte, cinque volti: quelli di Hayat, Mohammed, Aziz, Abdi e Malaika. Accompagnando questi profughi durante la fuga, scopriamo passo dopo passo le loro vite. Noi seguiamo per un'ora le vicissitudini di Malaika, una ragazza di etnia Dinka fuggita dal Sudan del Sud, Paese dilaniato da una guerra civile dal 2013. L'adolescente lascia il suo villaggio per cercare rifugio in un campo profughi in Kenya. «Mentre raccolgo la legna per il fuoco di campo, vengo aggredita e stuprata.

È stata la cosa più terribile che io abbia mai vissuto», si legge nel suo diario di viaggio. Consapevoli del fatto che verranno molto probabilmente violentate, le donne che possono permetterselo si fanno delle iniezioni di ormoni prima di mettersi in viaggio per evitare almeno una gravidanza indesiderata. Malaika si ritrova invece con un bimbo che gli cresce in grembo. Nel campo profughi di Kakuma, in Kenya, una città di tende che accoglie circa 185 000 persone, la giovane sud-sudanese impara a leggere, scrivere e far di conto e segue un corso di formazione per sarte. È il progetto pilota «Skills for life» di Swisscontact, finanziato dalla Direzione dello sviluppo e della cooperazione della Svizzera, che intende dare una prospettiva e un reddito ai profughi per affrancarli dalla dipendenza dagli aiuti umanitari. Fintanto che non cesserà la guerra civile in Sudan del Sud, Malaika non potrà abbandonare il campo profughi di Kakuma; la sua sarà una vita sospesa senza possibilità di integrarsi nel Paese d'accoglienza o di ritornare in quello d'origine. I profughi trascorrono in media 17 anni in questa specie di limbo.

Per altri, invece, il viaggio continua. Mohammed e Aziz raggiungono la Svizzera. L'Alto commissariato delle Nazioni Unite conferisce a Mohammed, ingegnere siriano, lo statuto di rifugiato e viene inserito nel programma di reinsediamento. La domanda d'asilo di Aziz viene invece rifiutata. Il profugo afghano viene ammesso provvisoriamente e ottiene il permesso F.

Siamo giunti nell'ultima stanza, in cui viene presentata in maniera dettagliata la procedura d'asilo della Confederazione. In un angolo un letto a castello, alla parete cinque armadietti di metallo contenenti alcuni oggetti personali, uno schermo trasmette le scene di un'audizione sui motivi di asilo da parte della Segreteria di Stato della migrazione (SEM).

«Con questa esposizione vogliamo informare in maniera oggettiva la popolazione su uno degli argomenti maggiormente dibattuti negli ultimi anni», indica Gieri Cavelty, membro della direzione e capo della comunicazione presso la SEM. «A scadenze regolari i cittadini devono esprimersi su oggetti in votazione riguardanti l'asilo oppure sono confrontati con l'apertura di un centro d'accoglienza. Per questo motivo è importante che la gente possa informarsi in maniera dettagliata su questo tema estremamente complesso e di stretta attualità».

Che cosa significa essere in fuga? L'obiettivo dell'esposizione al Museo nazionale svizzero era di dare una risposta a questo interrogativo. C'è riuscita? Non poteva riuscirci. La mostra «Fuggire» suscita forti emozioni, soprattutto con la videoinstallazione di Mano Khalil, e ha il pregio di accompagnare il visitatore, in maniera didattica, lungo l'intero viaggio, permettendogli di comporre tassello dopo tassello un quadro completo di questo complesso tema. Non riesce però a farci entrare nei panni di un profugo. Chi non ha mai sofferto la fame, non ha visto la morte negli occhi, non ha vissuto i traumi della guerra, non può nemmeno lontanamente immaginare che cosa significhi essere un profugo. Inoltre, l'esposizione si dimentica di interrogare il pubblico su alcuni controversi temi dell'attuale politica d'asilo elvetica. Per esempio, sull'abolizione della possibilità di presentare una domanda d'asilo presso le ambasciate svizzere oppure sulla mancata istituzione di un corridoio umanitario per permettere ai migranti bloccati alla frontiera di Chiasso di raggiungere i propri familiari in Germania o nei Paesi del Nord. Anche questi temi avrebbero contribuito a formare l'opinione pubblica in Svizzera.

Dove e quando
Fuggire, Museo nazionale svizzero, fino al 5 marzo. Dal 6 aprile al Museo della città di Aarau
Per le classi, dossier didattico scaricabile al sito www.flucht-fuir.ch